Quando si parla del fenomeno migratorio, si pensa spesso a lunghe traversate in mare su imbarcazioni di fortuna. In realtà, non è sempre così. La lunga storia dell’emigrazione valtellinese nel cantone svizzero ne è la perfetta testimonianza.
Migrazione e Italia. Sono due parole oggi facilmente associate e che si possono spesso ritrovare all’interno di uno stesso dibattito. Un’argomentazione frequente, portata soprattutto da chi cerca di sensibilizzare sul tema, è: anche gli italiani sono stati in passato degli emigranti. Ed è vero, inutile negarlo: l’Italia è un paese che ha la sua storia, soprattutto quella moderna, segnata dal fenomeno dell’emigrazione.
Eppure, bisogna fare un passo indietro, e di conseguenza anche uno laterale, rispetto alla narrazione comune: l’emigrazione italiana è quasi sempre pensata come una questione di grandi traversate in mare su imbarcazioni di fortuna, verso una terra completamente ignota. Ma non è così. L’emigrazione non è solo la ricerca di una vita nuova al di là dell’oceano, con la scelta conseguente di abbandonare per sempre la propria terra natìa.
Vi è infatti un altro luogo, opposto al mare, ma altrettanto importante nella storia dell’emigrazione italiana: la montagna
L’emigrazione italiana, infatti, è anche la storia di persone che si spostavano, sì dalla propria terra di origine, per rimanere però sul territorio europeo, alla ricerca di un’occasione lavorativa. Vi è infatti un altro luogo, opposto al mare, ma altrettanto importante nella storia dell’emigrazione italiana: la montagna. Qui tutto cambia. Gli abitanti della Valtellina lo sanno bene: un popolo da sempre segnato da spostamenti dalla propria terra, in cerca di lavoro o di fortuna nei territori limitrofi.
Tra le tante testimonianze a sostegno di tale argomentazione, ce n’è una in particolare. Il territorio è la vicina Svizzera; più nello specifico il Cantone dei Grigioni. Il perché è presto detto. La motivazione più banale è il trovarsi al confine con l’Italia. Tuttavia, vi è una seconda ragione più importante e caratteristica: il cantone elvetico, infatti, si presenta come un collegamento molto comodo per gli abitanti della Valtellina e della Valchiavenna, valli che comunicano maggiormente con esso che con altri territori.
Quanto appena detto è ben testimoniato e documentato all’interno del libro si Silvano Gallon, L’emigrazione italiana nel Grigioni: un’appassionata ricostruzione storica, che traccia esaustivamente le coordinate di un fenomeno da sempre parte attiva e caratterizzante nella storia del cantone svizzero.
In particolare, come ricorda Gallon nelle prime pagine del suo libro, nel Grigioni i valtellinesi trovarono un luogo dove la loro migrazione assumeva principalmente il carattere stagionale, ma che con il tempo assunse anche caratteri di permanenza. Un’emigrazione che apriva le porte ad una nuova prospettiva di vita, fuori da un’Italia che poteva risultare frustrante, verso zone confinanti, dove, comunque, si potevano ritrovare terra e gente simili.
La domanda sorge spontanea: è possibile fissare un punto di partenza? Il più antico registro-stranieri, conservato nell’Archivio Cantonale di Coira, risale al 1850; ma è evidente come il fenomeno abbia origini ben più antiche, con la presenza di emigrati valtellinesi nel territorio svizzero che da sempre ha caratterizzato i rapporti tra le due regioni di confine.
In ogni caso, tutti questi anni di emigrazione sono caratterizzati da una triste costante: il Grigioni sono sì una terra di opportunità lavorative, ma il prezzo da pagare è una vita spesso non dignitosa, con discriminazioni, sia sociali che politiche, a scandire la permanenza degli emigranti sul suolo elvetico. Fin dagli albori, infatti, gli italiani non sono ben visti e il trattamento loro riservato, un misto di disinteresse, diffidenza e disprezzo, ricorda tanto i discorsi odierni di alcuni politici nostrani.
Un esempio lampante di ciò sono le condizioni della manodopera emigrante nei cantieri ferroviari. La fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo sono per il Grigioni gli anni delle costruzioni di ferrovie. Tanti cantieri, dunque, all’interno dei quali la presenza italiana è massiccia. Il trattamento, però, è quello che è: le condizioni di lavoro sono spesso disumane e la paga è tutt’altro che dignitosa. Anche gli alloggi riservati agli stagionali italiani, che costituivano più del 90% della manodopera, rispecchiavano la condizione inaccettabile in cui versavano. Costipati in enormi dormitori, privi di aria, le risposte alle loro lamentele erano, come riporta La Patria, il giornale degli emigrati: “ciò per un italiano è sufficiente!”

Proprio da queste situazioni di disagio, nasce uno dei fenomeni che più caratterizza l’emigrazione sul suolo svizzero: la formazione di comunità autonome, dove gli italiani si riunivano per cercare di trovare conforto, nel tentativo di sostenersi gli uni con gli altri. Senza una patria in grado di aiutarli e sprovvisti di leggi che potessero tutelarli, in queste comunità si cercavano, facendo gruppo, modi per sopravvivere in un ambiente tanto difficile. Entrano in gioco, qui, nuovi attori, tra i pochissimi volenterosi di aiutare gli emigranti: le missioni italiane in Svizzera, ad opera di svariate organizzazioni religiose. Numerose e attive per aiutare le piccole comunità presenti sul territorio svizzero, queste ebbero un ruolo centrale nella questione migratoria.
Sono i primi anni del XX secolo, e dietro l’angolo ci sono i 30 anni che cambieranno indelebilmente la storia dell’Italia e dell’Europa; due guerre mondiali che marchieranno a fuoco la società contemporanea. L’emigrazione, ovviamente, non è impassibile di fronte a questi eventi tragici. La conseguenza di entrambi i conflitti fu una diminuzione del fenomeno migratorio, e un contemporaneo rimpatrio di molti emigranti per motivi bellici. Il tutto intervallato dalla parentesi fascista: questa, in nome del protezionismo, portò a una visione dell’emigrazione come fenomeno socialmente negativo, arrivando a bandire il termine “emigrante”.
Al termine del secondo conflitto mondiale, l’Italia, fresca della sua nuova veste repubblicana, siglò, il 22 giugno del 1948, un accordo con la Svizzera sull’immigrazione. L’accordo, principalmente incentrato sul lavoro stagionale, fu il primo passo verso una nuova era, simile agli anni precedenti sotto alcuni aspetti, ma in grado di apportare dei cambiamenti decisivi nella storia dell’emigrazione italiana sul suolo elvetico.
Gli anni ’60 sono il periodo d’oro dell’emigrazione: la Svizzera, piena di programmi di industrializzazione e di sviluppo, è alla ricerca di manodopera, principalmente italiana. Tuttavia, è con la fine degli anni ’70 che avvengono due cambiamenti radicali, diametralmente opposti, ma ugualmente importanti: la diminuzione dell’emigrazione stagionale, e il conseguente aumento dell’emigrazione stabile, definitiva. Il primo, in particolare, è dovuto alla crisi economica, con tanti italiani che rientrano in patria e che spesso vengono rimpiazzati da manodopera meno costosa (slavi, turchi, portoghesi etc.). Inoltre, il territorio elvetico comincia a perdere il primato nella scelta migratoria, venendo sostituito da altri stati della comunità europea.
Tutto vero, tranne che per il Grigioni: il numero di lavoratori stagionali italiani rimarrà sempre considerevole, continuando a costituire una caratteristica peculiare del cantone.
La certosina ricostruzione storico-sociale di Gallon si ferma alle porte degli anni Duemila, ma è evidente che l’emigrazione si sia tutt’altro che arrestata. Si tratta di un fenomeno che da sempre caratterizza e che per sempre caratterizzerà le valli della Valtellina. Da sempre e per sempre, questo territorio deve confrontarsi con il movimento dei suoi abitanti.
Ecco, dunque, una prospettiva diversa su un fenomeno così tanto al centro del dibattito pubblico. Una nuova luce sulla storia dell’emigrazione italiana, che aggiunge sfumature inedite e fondamentali. Una storia della quale, i valtellinesi lo sanno bene, i segni sulla pelle sono e saranno sempre visibili.
Bibliografia
GALLON S., L’emigrazione italiana nel Grigioni, Gruppo Valtellinesi e Valchiavennaschi nel Grigioni, 1995.